La giornalista Maria Acqua Simi al Liceo Shekespeare ha spiegato gli aspetti fondamentali della crisi afgana, raccontando anche le storie di Nopia, profugo che è riuscito a salvare la propria famiglia, e Habiba, giovane donna sopravvissuta a un attacco dei Talebani.
Un momento di informazione e di riflessione per non dimenticare la crisi afgana, al centro dell’attenzione quest’estate alla vigilia dell’11 settembre ma ora a quanto pare passata in secondo piano nell’opinione pubblica e pressoché dimenticata dai giornali. Il liceo Shakespeare ha voluto organizzare un incontro Giovedì 30 settembre per permettere agli studenti di approfondire uno dei punti più scottanti della recente attualità, invitando a parlare la giornalista Maria Acqua Simi, esperta di Medioriente, più volte inviata sul campo.
La relatrice ha iniziato spiegando ai ragazzi la conformazione del territorio afghano, la sua composizione etnica, le lotte tribali che da sempre lo hanno lacerato, fattori non secondari nel fare di questo paese la “tomba degli imperi”, un territorio che, pur occupato, nessuno è mai riuscito a controllare in modo definitivo; non ci sono riusciti i Sovietici in dieci anni di occupazione, hanno fallito gli Americani (e la Nato) in vent’anni di presenza armata.
La giornalista però non ha voluto fare l’analisi di fattori, colpe, cause, ha voluto invece far conoscere l’Afghanistan attraverso le storie di due persone che ha incontrato: Nopia e Habiba.
Il primo proviene dalle zone dell’est, quelle più arretrate (non ci sono scuole, le donne vanno in giro completamente velate…) da sempre controllate dai Talebani. Per mantenere la famiglia inizia a collaborare con gli americani, facendo prima l’autista poi l’interprete e la guida. Ma i Talebani non accettano questa sua nuova vita e minacciano il padre affinché faccia tornare il figlio a lavorare per loro alla raccolta dell’oppio. Nopia non accetta ma sa che dovrà fuggire: attraversa a piedi l’Iran, la Turchia, la Grecia e da lì arriva in Italia. In Afghanistan ha lasciato la moglie e due figli e quando è iniziata la ritirata degli statunitensi, Nopia è stato aiutato a far arrivare in Italia la sua famiglia. In un’intervista ha detto che ciò che desidera per i suoi figli è che siano felici ed in fondo è quello che desideriamo tutti.
Habiba invece è una giovane ragazza che nel maggio del 2020 sopravvive all’attacco talebano ad una scuola femminile di Kabul, indizio che l’istruzione femminile non è certo una priorità per i talebani. Lei però vuole continuare a studiare e, grazie a una colletta umanitaria, viene iscritta a una scuola privata che viene chiusa dopo poco. Questo il messaggio che ha inviato in Italia: “Sono molto triste. Se non posso studiare o lavorare, a cosa servo?”. In queste parole è racchiuso il dramma di tutte le donne afghane che, dopo aver assaporato la libertà, sono adesso costrette a tornare nell’ombra. Ma è anche la domanda che abbiamo tutti, l’urgenza di capire a cosa siamo chiamati.
“Come potrà esserci un futuro diverso per l’Afghanistan?”: questa è la domanda posta dagli studenti. Se è ormai dimostrato che non si può “esportare” la democrazia, cosa si può fare per questo popolo? Senza troppe illusioni, Maria Acqua Simi ha spiegato che “quel seme di libertà che hanno iniziato ad assaporare deve fiorire, magari con forme che non sono quelle occidentali. Le donne che in questi giorni stanno rischiando la vita, protestando contro i Talebani sono il segno che il desiderio di essere felici non può essere estirpato. Certo, c’è bisogno che quanti sono scappati (che rappresentano il ceto colto del paese) tornino in Afghanistan e continui a darsi da fare per costruire un paese libero. A noi ora il compito di non dimenticare cosa sta succedendo e di accogliere i profughi che arriveranno presumibilmente la prossima , far loro compagnia nelle piccole cose di ogni giorno che la difficoltà della lingua rende impossibili. Perché accogliere e incontrare è sempre un’occasione preziosa”.
